BiografiaNato il 13 ottobre 1969 a Mosca, dove vive e lavora Pittore Tra il 1988 e il 1994 ha studiato presso l’Istituto di Belle Arti di Mosca (MGAChI) “V.I. Súrikov”, nella classe di ritratto di I.S. Glazunòv.

Dal 1994 al 1996 ha compiuto un tirocinio come assistente presso l’Accademia russa di Pittura, Scultura e Architettura (RAŽViZ), di cui in seguito è divenuto docente.Tra il 1996 il 1999 ha insegnato composizione presso la RAŽViZ. Dal 1997 dirige il laboratorio di pittura storica.

Nell’atelier del padre coi genitori. 1969Nel 1999 ha conseguito il titolo di professore.

Dal 2001 è alla testa di un gruppo di pittori della RAŽViZ che realizzano, sulla base di suoi progetti, gli affreschi della Chiesa della Dormizione a Vèrchnjaja Pyšmà, nei pressi di Ekaterinbúrg.

Ha lavorato nel Grande Palazzo del Cremlino: per il vestibolo ha dipinto i diciotto ritratti degli zar-condottieri (1997-1999) e ha disegnato i progetti per gli interni (arredo, stucchi, specchi, lampadari, pannelli) e per i bassorilievi decorativi Le glorie dell’esercito russo (1997-1999).

Pittura:

  • “Il Battesimo di Nòvgorod” (1988)
  • “Kolòmenskoe” (ciclo, 1992-1993)
  • “Ústjug Velíkij” (ciclo, 1993)
  • “Crucifige!” (1994)
  • “La moglie” (1995)
  • “Ritratto di famiglia” (2003)
  • Ritratti femminili in costumi russi (serie)
  • “La principessa Evdokíja…” (2005)
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Mostre:

  • “Nomi nuovi del realismo russo” – Amburgo, Galleria Winter (1990)
  • “Nomi nuovi del realismo russo” – San Pietroburgo, Palazzo del Maneggio (1995)
  • “Nomi nuovi del realismo russo” – Samàra (1996)
  • Esposizione di Natale – Galleria Russa, Tallinn (2002)
  • Esposizione di quadri storici “Russia millenaria: immagini di vita” – Mosca, Museo russo di arte decorativa e applicata (2003)
  • “Russia, Rus’: preservati, perserva!” – Čerepovèc (2003)
  • Mostra di pittori moscoviti – San Pietroburgo, Palazzo del Maneggio (2005)
  • Esposizione per il ventesimo anniversario della fondazione dell’Accademia russa di Pittura, Scultura e Architettura – Mosca, Salone Centrale delle Esposizioni presso il Palazzo del Maneggio (2007)
  • “250 anni dell’Accademia russa di Belle Arti” – Mosca, Salone Centrale delle Esposizioni presso il Palazzo del Maneggio (2007)
  • “Luce al mondo” – Mosca, Salone Centrale delle Esposizioni presso il Palazzo del Maneggio (2007)
  • “La famiglia moscovita” – Mosca, Salone Centrale delle Esposizioni presso il Palazzo del Maneggio (2008)
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Ivàn Glazunòv coi figli (2010)Dal 1996 è membro dell’Unione degli artisti russi, affiliata alla Federazione Internazionale degli Artisti.

Nel 2008 è stato nominato artista emerito della Federazione Russa.

Dal 2007 è Accademico dell’Accademia russa di Belle Arti.

Nell’ottobre del 2008 ha inaugurato a Venezia il progetto “La Russia dalla contemporaneità alla tradizione”, comprendente una mostra personale, un concerto per pianoforte, un concerto di musica sacra anticorussa e una conferenza sul ruolo della tradizione nella cultura russa contemporanea, tenutasi presso l’Università di Ca’ Foscari.

Tra maggio e ottobre del 2009, presso il Museo di Kolòmenskoe a Mosca, ha avuto luogo la mostra personale “Arte INattuale

Tra giugno e ottobre del 2010, presso la Galleria d’arte della regione di Vòlogda, ha avuto luogo la mostra personale “Salva e proteggi”.

Tra aprile e dicembre del 2010 ha svolto la funzione di responsabile artistico e progettista degli interni in occasione della ricostruzione, a Kolòmenskoe, del palazzo dello zar Aleksèj Michàjlovič.

Tra il 2000 e il 2010 ha concretizzato un progetto di salvaguardia e restauro di un monumento unico dell’architettura lignea del XVII secolo (la chiesa di San Giorgio nella regione di Archàngel’sk) con conseguente trasloco nel Museo di Kolòmenskoe a Mosca.

La moglie JúlijaNel 2011 sono vicini a compimento i lavori per la decorazione e l’arredo interno della “Piccola” Chiesa dell’Ascensione in via Bol’šàja Nikítskaja, a Mosca.

Sposato, ha quattro figli.

 

 

 

IVÀN GLAZUNÒV

 Al giorno d’oggi, in una metropoli come Mosca, dove la globalizzazione ha cominciato a farsi strada, la realtà è priva di ogni poesia. Purtroppo, l’atmosfera peculiare dell’antica capitale russa, coi suoi palazzi, i giardini e le tranquille passeggiate lungo il fiume, sta scomparendo. 

Cosa dovrebbe fare un artista: adeguarsi ai tempi e affezionarsi alle catene di ipermercati, agli aeroporti, ai megaparcheggi o alle strade ingombre di banche e di complessi residenziali in stile high-tech? Per me, è impossibile. Dove trovare una fonte di ispirazione, un soggetto, un paesaggio? Bisognerebbe forse dipingere quadri di carattere sociale su argomenti di attualità? Non fa per me. Entrare in una logica “commerciale” e dedicarsi alle “installazioni”? Per questo non serve essere artisti, e del resto per me non si tratta nemmeno di arte. Il “bello”, a mio avviso, è una magica tessitura di aria, luce, fattura e forma: di tutto ciò che genera un’immagine. Tutto ciò che amo dilegua, fino a scomparire del tutto, quando è impastoiato e violentato dall’informazione e da un “progresso” in cui non credo. Ecco la mia personale visione delle cose.

Per lunghi secoli, l’umanità ha condiviso la medesima concezione del mondo, percependo la realtà nei suoni della natura, privi di clangori industriali, distinguendo e vivendo l’avvicendarsi del giorno e della notte, con un corretto sentimento della misura dell’uomo nell’universo, senza porsi all’altezza di un grattacielo o di un aereo nel rapportarsi a un albero o a un’alta roccia, ma piuttosto stando in sella a un cavallo. A pensarci bene, perfino Raffaello, che era un genio, aveva comunque una concezione della luce e del colore affatto diversa. Il nostro modo di vedere è stato cambiato dall’avvento della luce artificiale e dei colori sintetici. Allora, l’uomo percepiva la bellezza e l’armonia secondo altri criteri. Le generazioni consegnavano l’una all’altra un’idea di armonia, perpetuandola sulla tela, in musica, in poesia o in architettura. Chi veniva dopo, assimilava queste idee aggiungendovi qualcosa di proprio. Nell’arte, i protagonisti del Rinascimento si sentivano vicini agli artisti dell’antichità, e i pittori di icone del XVII secolo si consideravano seguaci dell’evangelista Luca. È stato il XX secolo a incutere il terrore del passato: solo nel XX secolo si poteva vedere nel Quadrato nero di Malèvič[1] una geniale interpretazione del mondo.

Grazie al cielo, in Russia gli spazi sono sconfinati, la poesia dell’arte popolare inesauribile, i classici della letteratura meravigliosi e i paesaggi straordinari, sicché è ancora possibile trarre nutrimento e conforto da quello stesso sentimento che io provai nell’infanzia, quando mia madre aprí, come una sorta di tesoro, un libro di fiabe illustrato da Ivàn Bilíbin.

Per tutti noi, la memoria di sé inizia in un particolare momento. Non saprei dire con precisione quanti anni avevo, ma tutto ciò che accadde prima di quanto sto per raccontare è confuso, come nella nebbia… Ebbi finalmente coscienza di me dopo aver perso i sensi, precipitando dall’alto della scala a chiocciola che si trovava nel famoso atelier di mio padre in vicolo Kalàšnyj, a Mosca. Ricordo di aver aperto gli occhi e di aver visto chini su di me i volti spaventati dei miei genitori. Sentii quanto mi amavano, e quanto io amavo loro. In quel preciso momento compresi per la prima volta in che ambiente vivevo. Avevo avuto un capogiro. E nel pensiero ripercorsi una seconda volta il volo che avevo fatto, ma come al rallentatore, contemplando i volti dei santi, le cornici scintillanti delle icone, il paesaggio fuori della finestra… Da quell’istante, qualcosa mi attirò verso quella torre adibita ad atelier, quasi che fosse un luogo incantato. Lí, tutto era particolare: l’odore dei colori, delle lacche, dei diluenti, della polvere.

Tutto era magico e caotico: i drappeggi, i libri, le scalette, i tubetti spremuti dei colori, il pavimento coperto da un caleidoscopio di macchie, le tele raffiguranti volti noti e sconosciuti. Un tale, soprannominato “cinabro”, una specie di stregone che faceva comparire su una lastra nera sembianti favolosi (soltanto in seguito seppi che era un restauratore di icone). E poi il telefono che suonava in continuazione, le frequenti “invasioni” di persone, tra cui alcuni eccentrici con la barba e lunghi abiti neri, che mi incutevano timore… Bonarie signore in ghingheri, che parlavano lingue straniere. Fu allora che imparai a memoria, innamorandomene per sempre, quei suoni ammalianti, nei quali solo in seguito riconobbi la Messa notturna op. 37 di Rachmàninov. E quando tutti se ne andavano, con piacere particolare raccoglievo la cera delle candele, colata sul tavolo di legno grezzo che mi arrivava praticamente al mento…

Poi cominciai la scuola. Indossavo come tutti il fazzoletto da giovane pioniere e studiavo versi che parlavano di Lenin. Ma le manifestazioni operaie sul Kalíninskij prospèkt, visibili dalla finestra dell’atelier, mi apparivano già come un’assurda mistificazione, soprattutto mentre risuonavano le note della Messa notturna di Rachmàninov, o Maria Callas cantava. E già allora ero riconoscente a mio padre per questo.

Mia madre, bella e amorevole, sempre occupata tra gli ospiti assidui, le faccende di casa e mio padre, china su un tavolo stile impero faceva in tempo anche a disegnare gli schizzi dei costumi per le opere in scena al Teatro Bol’šòj: la vergine Fevrònija, il principe Igor’… Da piccolo ero spesso ammalato e, steso nel letto, aspettavo che mia madre finisse di lavorare e che in corridoio tintinnassero i suoi braccialetti, segno che stava venendo a raccontarmi leggende di fate volanti, le Peri dei deserti di Persia. Le piaceva portarmi al Museo storico, dove mi mostrava le cotte di maglia, le sciabole. Fu con lei che provai per la prima volta la passione e la nostalgia per il passato. E a mia madre devo anche l’amore per l’opera lirica: il Borís Godunòv di Músorgskij, La leggenda dell’invisibile città di Kítež e della vergine Fevrònija di Rímskij-Kòrsakov.

Un giorno i miei genitori mi affidarono a uno strano individuo, che da principio presi in antipatia. Era un tal Vasílij Aleksàndrovič: non ho mai saputo chi fosse, ma spesso mi ritorna in mente. Col consenso di mia madre, mi accompagnava alla funzione mattutina presso la Laura della Trinità di San Sergio. Viaggiavamo nel gelo sul treno locale: era inverno, di mattina presto, ancora al buio. Ricordo che Vasílij Aleksàndrovič indossava solo giacca e sciarpa. Un giorno mi condusse nella Chiesa dell’Intercessione, nel cimitero Rogòžskoe, dai Vecchi Credenti. Ancora oggi, il ricordo di quella visita produce su di me una profonda impressione. Al ritorno, mi mancarono le parole per raccontare a mia madre ciò che mi era accaduto. Era come se avessi visto qualcosa che avevo già sognato prima.

Anche oggi visito città e musei, ma coi miei figli. Mostrano lo stesso interesse che avevo io allora. Mia figlia Olja disegna schizzi di costumi per gli spettacoli domestici, seduta nel mio atelier. E io sono riconoscente ai miei genitori, per questo. Mi chiedono spesso se sia difficile essere il figlio di un grande pittore. E io dico che è semplice. È bello avere accanto fin da bambino un padre in grado di rispondere a tutte le tue domande. E le domande erano tante. Studiavo alla scuola d’arte, dove insegnavano a dipingere chiese senza croce in un paesaggio, a non raffigurare bottiglie di vino in una natura morta e altre cose di questo genere. Mi trovavo a Múrmansk per la pratica, e mi colpí che un docente della Scuola d’Arte Sovietica ci obbligasse a eliminare da un paesaggio, in cui era raffigurato un porto, le croci dalle bandiere norvegesi che sventolavano sulle navi. Se non avessi avuto un padre sempre dotato di grande libertà di pensiero, chi mi avrebbe aiutato a capire una cosa simile? Un’esistenza integra, edificata superando ogni ostacolo, una rettitudine interiore che nessun potere fu capace di corrompere, un bagaglio culturale enorme ereditato dalla famiglia, vissuto ed elaborato fin dall’infanzia: queste virtú hanno rappresentato un baluardo che mi ha consentito di trovare il mio cammino. Ora sono padre anch’io, e so quanto sia difficile custodire per i propri figli quell’universo personale in grado di difenderli dal torbido assalto della volgarità patinata, dall’ottusità della cultura di massa, che li trasformerebbe in mediocri consumatori.

Ho studiato dapprima a casa, coi miei genitori: nell’atelier di mio padre, coi libri che aveva raccolto; in seguito all’Istituto Súrikov, dove egli insegnava ritratto, e nei musei che mia madre mi aveva insegnato ad amare. E ho voglia di continuare ancora a lungo.

Quanto piú avanzo negli anni, tanto maggiori sono la riconoscenza e l’amore nei confronti di mio padre e mia madre.

 

Ci sono al mondo luoghi che esercitano un fascino particolare sull’anima di un uomo. Nel mio caso, si tratta delle regioni settentrionali della Russia. La natura del nord, il paesaggio, alcuni indimenticabili incontri mi aiutano a percepire e comprendere il significato delle tragiche contraddizioni della nostra vita. Proprio in questi luoghi si è accentuato il desiderio di comprendere la storia della mia Patria. Li ho visitati per la prima volta a ventidue anni, quando ero studente dell’Istituto Súrikov, e vi ho scoperto l’universo incontaminato al quale, istintivamente, anelavo. Avevo percepito echi lontani di questo universo fin dall’infanzia, nella musica dei compositori russi, nelle fiabe. Era un universo che suscitava emozioni in cosí tante persone che sarebbe impossibile enumerarle tutte: aveva ispirato Leskòv, Mèl’nikov-Pečèrskij, Bilíbin, Músorgskij… Dopo un viaggio lungo il corso settentrionale della Dvinà, Ivàn Jàkovlevič Bilíbin scrisse con costernazione sul fascicolo del 1904 della rivista “Mir Isskústva” (“Il mondo dell’arte”): «Non ci sono piú dubbi: l’arte popolare russa sta agonizzando, è in punto di morte. Il corso della vita nuova la sta spazzando via, e solo in rari, remoti luoghi covano le ultime faville, già prossime a estinguersi». Cento anni dopo, un secolo intero, ho percorso lo stesso itinerario. Cosa direbbe Bilíbin oggi? Villaggi deserti, chiese oltraggiate e abbandonate, camposanti coperti di ortiche dove riposano nell’oblio uomini che Bilíbin ebbe modo di conoscere. Credo non potesse immaginare quanto tutto sarebbe cambiato. Questi cent’anni hanno veduto cosí tante sofferenze, morti e distruzioni. Ogni conversazione con la gente del luogo cadeva su questo argomento, se appena si parlava per piú di dieci minuti. Ho vissuto per mesi in sperduti villaggi, senza mai sentirmi un turista. Viaggiavo a piedi, con un enorme zaino sulle spalle, e da principio non portai con me neppure la valigetta da pittore, perché non si trattava dell’Anello d’oro, non c’erano venditori di souvenir ma persone che, per aprirsi ed essere “naturali”, avevano bisogno di provare fiducia nei tuoi confronti, di accettarti fra loro. In quei luoghi non aveva senso millantare o simulare. Erano autentici villaggi russi dalle tradizioni secolari, dove tutti erano imparentati, non si trovavano forestieri e spesso neppure gente proveniente da altre località. E per arrivare a comprendere almeno qualcosa, non ci si poteva presentare come un tirocinante di passaggio. Ho amato questi luoghi, e mi auguro di averli capiti almeno un po’. È terribile che tutto questo possa andare perduto, ma di fatto parliamo degli ultimi villaggi russi, di una specie ormai in via di estinzione. Stiamo perdendo ogni legame con la tradizione viva, con la stupenda espressività della lingua russa. Sembra incredibile, ma già adesso, ascoltando la viva parlata settentrionale nel video che ho girato in quei luoghi, molti amici affermano che bisognerebbe sottotitolarla. Non capiscono!!! Iòsif Brodskij trascorse due anni di deportazione in un angolo sperduto della regione di Archàngel’sk. Amo i versi che Búnin e Nabòkov hanno dedicato alla Russia, ma trovo ancor piú notevole che, nelle memorie relative a quel periodo, trapelasse un calore fuori del comune quando Brodskij parlava degli incontri coi contadini del villaggio in cui aveva vissuto: nel 1964 egli si entusiasmò e si commosse, sentendo dalle loro voci tante parole russe arcaiche.

Ho recuperato da bauli decorati kokòšniki e sarafàny [1]. Ognuno ha i suoi gusti, ma è un vero peccato che la passione per i vasi cinesi o per le porcellane della Rivoluzione ci distragga da ciò che è veramente “nostro”, che è piú prezioso e ancora si può salvare: nella migliore delle ipotesi ci contentiamo di un lubòk [2] o di qualche oggetto “artigianale”, finché non sarà troppo tardi…

Ho sentito ripetere molte volte le espressioni “disadorno paesaggio russo”, “bellezza spoglia della natura russa”. Ma qual è il destino di una persona nata nel centro di Mosca, sul Novyj Arbàt? Come spiegare che questo paesaggio “disadorno” mi sconvolge al punto da togliermi il respiro, come chi, di ritorno da un prolungato esilio, si ritrova nell’amata, anelata Patria, che restituisce le sensazioni e i profumi dell’infanzia, che risana, rinnova e ti rammenta un te stesso migliore, piú innocente…

Per me è fondamentale che il mio lavoro trasmetta il rumore della pioggia che picchietta sul tetto di legno di una casa ricoperta di muschio, l’ululato del vento dietro le finestre nei crepuscoli autunnali, l’umida, fresca caligine mattutina che sale dal fiume…

Un paesaggio non può contenere tutto, ma io vorrei che chi guarda i miei quadri sentisse i primi uccelli in un’alba di giugno dopo la notte bianca, vorrei che in un piccolo dettaglio riuscisse a percepire molto di ciò che mi ha emozionato, che vi si immedesimasse come ho fatto io. Non è forse vero che, dopo aver veduto molte cose e dopo tante esperienze, arriva un momento in cui ci accorgiamo che tutto quanto c’è di piú bello al mondo è penetrato in noi allorché la nostra anima bambina ha vissuto, in comunione con la natura, i primi inverni, le primavere, i temporali, la neve?..

Per questo il cuore si stringe alla vista di una natura ancora immune al “benessere” della civiltà. Per questo il paesaggio è il mio genere pittorico prediletto.

Il mio celebre progenitore Aleksàndr Nikolàevič Benois apre il suo libro di memorie confessando di non aver mai amato la Russia, di non provare alcun interesse verso quella Russia che pure gli aveva dato i natali e di amare soltanto Pietroburgo. E di tutto ciò incolpava il suo sangue, in cui si erano mescolate patrie diverse: Francia, Germania, Italia. Benché io abbia lo stesso sangue, sotto certi aspetti sono stato piú fortunato del grande intenditore d’arte Aleksàndr Benois, artista a sua volta: tra i miei antenati, per esempio, posso vantare anche dei contadini del distretto di Rostòv, i Glazunòv, pittori di icone. Questo mi ha portato in sorte molti sentimenti verso la Russia, l’Europa e l’Italia…

Amo Venezia. Mi ci sento protetto contro l’aggressione del vetro, del cemento, dei cartelloni pubblicitari. Che stupefacente mescolanza di barocco e bizantino! I cavalli di San Marco si slanciano verso il futuro da un’antichità remota, e le verdi acque, opache come gli specchi veneziani, rifiutano di riflettere il tempo. In questa meravigliosa città non danno la minima notizia di sé gli odiati manifesti di Malèvič, Tàtlin e Le Corbusier, dove si inneggia all’abolizione della civiltà del “vecchio” mondo.

Camilla Cavos, veneziana, madre dei fratelli Benois, morí a Pietroburgo. La famiglia dei miei lontani predecessori aveva vissuto a Venezia per trecento anni. All’epoca, le calli erano solcate da Tiziano, Vivaldi, Gozzi, Tiepolo. Mi piace intravvedere la sagoma di San Marco nella foschia mattutina, mentre in vaporetto navigo verso Riva degli Schiavoni. Amo l’eterno rituale della passeggiata mattutina al mercato del pesce, l’ortodossia fusa insieme col barocco a San Giorgio dei Greci, le figure di pietra distese nella sontuosa penombra del gotico cattolico ai Frari. Lo sguardo della Madonna dai mosaici dell’abside della basilica di Santa Maria e Donato, splendida come i canti beneventani, oltrepassa i confini del tempo. A Venezia, il tempo basta mai. Essa capovolge e confonde. E, quando già imbrunisce, vieni ammaliato dalle oscure finestre della Giudecca, o eccitato dal lussuoso, scintillante lampadario, appeso alle travi di legno del soffitto, che fa capolino nella cornice di una finestra sulla facciata intenebrantesi di un silenzioso palazzo.

Ci sono al mondo tre luoghi in cui sento di respirare liberamente: il bosco coi tumuli degli antichi finni a Pínega, angolo remoto della regione di Archàngel’sk; la galleria di Palazzo Ducale rivolta verso la laguna; una finestra del palazzo del Tèrem al Cremlino, attraverso i vetri colorati della quale si intravvedono le antiche mura delle cattedrali. Ma devo dire che trovo stimolante la storia di qualunque luogo, si tratti della Crimea, dell’Italia o del Deserto di Giudea. E quando dipingo un paesaggio col mare e le montagne di Creta, penso al palazzo di Cnosso, al mito del minotauro o alla leggenda di Icaro.

Nell’epoca della tecnologia digitale, un viaggiatore non ha difficoltà a registrare su un supporto ciò che vede. Per molti artisti, lavorare con le fotografie è divenuta prassi abituale. Anch’io in viaggio porto con me una macchina fotografica, perché a distanza di anni aiuta a rammentare ciò che ho veduto; ma non è mai capitato che la foto di un paesaggio mi fosse di impulso a dipingere. Mi sembrava che non ci fossero difficoltà nel ricreare sulla tela, con l’ausilio di un’inquadratura fissa, l’atmosfera di un paesaggio, e applicarmi in qualcosa che pare tanto semplice non è la mia specialità. Non posso trasfondere vita nella tela se non dipingo uno studio dal vero. Per questo vado sempre in giro con la mia valigetta. Lo studio di per sé non richiede particolare abilità. Il problema è registrare una situazione con mezzi disponibili per un lasso di tempo limitato, fissare nella memoria ciò che si vede e si prova in un luogo e in un momento ben definiti. Uno studio, bello o brutto che sia, è la memoria di un giorno in cui si è provata una forte emozione. Io non amo e non cerco vedute “amene”: per me è importante che il soggetto sia rilevante e che si trovi in sintonia col mio stato d’animo. Ci sono studi che all’atto pratico si trasformano in grandi paesaggi, mentre altri rimangono semplici ricordi.

Cosa mi spinge a creare, a dipingere? Le esperienze personali, anche se si tratta di eventi lontani nel tempo. Per quale ragione gli uomini ritornano su ciò che è accaduto tre o quattro secoli prima? Evidentemente, non c’è soluzione di continuità nel destino, anche di una sola persona. Viviamo portando dentro di noi i peccati e le virtú dei nostri predecessori. Leggendo le vite dei santi, mi colpí la vicenda della moglie di Dmítrij Donskòj, la monaca Evfrosínija, al secolo Evdokíja Dmítrievna. Dopo la morte del marito, la principessa fu fatta oggetto di calunnie e invettive da parte dei nobili moscoviti dell’epoca. Venne accusata di esagerare nel lusso approfittando della sua posizione e di mantenere segretamente dei favoriti. In realtà, viveva preparandosi di nascosto alla tonsura, mortificando il corpo macilento con catene occultate sotto vesti sfarzose, guariva i ciechi e parlava con l’arcangelo Michele. La sua immagine rappresenta per me una chiave per comprendere e decifrare la storia russa. Le sue parole «Soltanto Dio conosce davvero i moti dell’animo umano» danno molto su cui riflettere. Restituire in una tela di soggetto storico l’atmosfera di un’epoca ha per me piú valore di qualsiasi descrizione storiografica. Quando lavoro su un soggetto storico, traggo piacere dal contatto con oggetti antichi. Grazie a ciò che hanno fatto i miei genitori, un museo o la nostra collezione privata rappresentano sempre dei meravigliosi, viventi microcosmi. Come per la Tat’jàna di Púškin ogni oggetto nella tenuta di Onègin nello stesso tempo parla del suo proprietario e dà conforto ai sentimenti, cosí per me al Cremlino un calice o un semplice boccale, toccato dalle mani dello zar Aleksèj Michàjlovič, o magari proprio della principessa Evdokíja, è fonte di emozioni. E sono queste le emozioni cerco di trasmettere nei miei lavori. Molti artisti hanno collezionato antichità, e anche la vita quotidiana può diventare soggetto dell’arte. Ma non è solo questo a emozionarmi. Trovo molta poesia anche negli amati costumi popolari. La bellezza nell’abbinamento degli ornamenti e nei toni cromatici è un attributo superficiale: nel profondo, essi racchiudono l’essenza della natura femminile, inattingibile e conturbante. Il costume popolare suggerisce un divino concetto di donna. Ho potuto constatare che, quando indossa un costume popolare, una donna cambia nell’aspetto esteriore e quasi si trasfigura interiormente.

L’idea di raffigurare Natàša in costume popolare è sorta per caso. Questa ragazza giovane e bella, in visita nel mio atelier, provava con interesse alcuni antichi costumi della mia collezione. Al di là delle prolungate sedute di posa, l’obiettivo principale è stato quello di preservare l’impressione originaria, l’incantamento della ragazza mentre provava l’antico costume. Cosí ha avuto origine un ciclo di ritratti di donne in costumi di diverse regioni della Russia, ognuno dei quali ha strutturato nei secoli la sua peculiarità. È un lavoro interessante, che continua. Natàša aveva posato nel costume popolare di Nížnij-Nòvgorod tanto amato da Nèsterov, e si era quasi trasformata nella protagonista di un romanzo di Mèl’nikov-Pečèrskij.

Incontrare persone le cui fisionomie riflettano la nobiltà interiore, le sofferenze vissute o la storia stessa è per me come una manna dal cielo. È il caso di Aleksàndra Filíppovna, che avevo conosciuto per caso nel Settentrione russo. In seguito incontrai questa donna, che era divenuta quasi una parente stretta, in un remoto villaggio, mentre mi trovavo in viaggio con mia moglie e, a sera inoltrata, stavamo cercando dove pernottare. Fu la prima persona in cui ci imbattemmo appena superato quel “confine” convenzionale, oltre il quale ti rendi conto di quanti mondi paralleli esistano nel nostro grande paese. Aleksàndra Filíppovna aveva condiviso la sorte di tutti coloro che vivono nel Settentrione, discendenti di quegli abitanti di Nòvgorod che a bordo delle loro imbarcazioni si erano aperti la strada verso gli angoli piú remoti delle terre settentrionali. I suoi occhi avevano visto la distruzione delle chiese e la sconvolgente trasformazione delle comunità contadine in kolchòz. C’erano stati la carestia, la morte dei figli, la scomparsa nel ghiaccio del marito tornato dalla guerra senza una gamba, le brigate femminili per la deforestazione… Un giorno, mentre il camino guaiva, sullo sfondo della finestra ormai buia e rigata di pioggia Aleksàndra Filíppovna stava seduta, vestita di una vecchia camicia cucita a mano. Quella sera ci aveva regalato diverse canzoni, e un racconto sacro della tradizione orale: narrava della Madonna che, in viaggio tra le montagne, rammenta di aver sognato i tormenti di Cristo. Colpiva che questa composizione popolare non venisse raccontata come una curiosità folcloristica, ma come una storia realmente accaduta, un apocrifo, una sorta di preghiera declamata in una lingua arcaica, ma viva. Verosimilmente, nel Settentrione essa viene tramandata da cinquecento anni. Adesso, a Mosca, riceviamo pacchetti contenenti funghi secchi, bacche e in allegato lettere scritte con grafia diligente, quasi infantile: «Un saluto a voi, miei buoni Ivàn Il’íč e Júlija, e ai vostri figlioletti. Vi scrive la vostra Aleksàndra Filíppovna. Quest’anno c’è abbondanza di sorbe e pure di ciliegie selvatiche…».

 

Nella storia della pittura, conosciamo molti esempi di ritratti su commissione eseguiti magistralmente e divenuti capolavori. Ma nella ritrattistica, le vere gemme sono i quadri dipinti perché l’anima stessa dell’artista lo ha imposto. Non sempre conosciamo il soggetto raffigurato: in qualche caso si tratta di un amico, talvolta è solo un’immagine casuale che muove l’artista alla creazione. Come le affascinanti figure femminili di Vermeer, o gli austeri contemporanei senza nome di Giovan Battista Moroni: splendido il suo ritratto di sarto! E quante fisionomie toccanti e insieme solenni – incorniciate ora da un copricapo ornato di perle, ora da un’acconciatura particolare – nei ritratti di sconosciuti pittori della provincia russa; e l’elenco potrebbe proseguire. Queste opere hanno un comune denominatore: l’assenza di pathos eccessivo e un senso di intimità che i ritratti su commissione difficilmente trasmettono. In esse si legge lo sforzo di fissare i giorni, i momenti in cui l’artista, con tutte le sue energie creative e spirituali, è massimamente sensibile all’immagine di colui che deve ritrarre. Tali ritratti fanno nascere in chi li guarda il desiderio di conoscere i segreti antefatti della creazione: ma non c’è ricerca d’archivio che possa sostituirsi alla conoscenza diretta del soggetto raffigurato, che possa ricostruire una immaginaria visita a una certa epoca, a una certa casa… Tali ritratti sono perfino in grado di dare un’idea dei profumi e dei suoni che pervadevano il microcosmo fissato nel tempo dall’artista. Per questo, anche quando lavoro su commissione, è importante che il committente abbia fiducia nelle mie capacità; solo allora è possibile accostarsi a questo mistero nei propri lavori. Ed è altresí importante che la figura nel quadro non sia la copia perfetta dell’originale solo dal punto di vista fisiognomico. Un ritratto è riuscito quando in esso la mia visione del soggetto è in sintonia con le caratteristiche che lo distinguono da tutti gli altri.

Quando ho ritratto la gravidanza di mia moglie, ho cercato di introdurre nell’opera elementi di incompiutezza – come in uno studio, dove non tutto è esplicito – per rendere la situazione di incompletezza in cui si trova una donna che sta per dare alla luce un bambino.

L’attesa, la percezione particolare, connaturata alla donna, del mistero della vita, cosí come il senso di appartenenza a tale mistero, indirizzano ogni pensiero verso l’interiorità. Pochi minuti ancora e l’afosa giornata estiva si spegnerà, regalando frescura e riposo.

 

Come si può raffigurare lo slancio emotivo, il gesto spontaneo di un bambino, dipingerlo senza sentimentalismo, senza leziosaggine? Un adulto è piú semplice da guardare e da capire. La sua fisionomia si è ormai formata. I suoi modi sono compiutamente strutturati, la tipologia esteriore è definita e la personalità risulta piú evidente. Un bambino nella tenera età è invece un modello complesso. È difficile cogliere il tratto che lo rivela. Nel ritratto di Olja, ho cercato di restituire la bellezza delle sfumature cromatiche, un’armonia tra la tela e l’ambiente che quasi vi sprofonda, mentre sullo sfondo la luce del giorno modella il dolce viso di mia figlia. Ho anche preferito rinunciare alla luce frontale e laterale per dipingere in controluce. Volevo comunicare l’atmosfera della dacia in un giorno d’estate, quando porte e finestre sono spalancate, quando, seduto nella stanza, senti i passi di un bambino che cammina scalzo sul pavimento tiepido. L’esatto, prezioso momento in cui la mia figlioletta venne a parlare con grande serietà della cavalletta che aveva appena catturato.

Nel ritratto di famiglia volevo fermare, come lo avessi spiato di nascosto, un qualunque momento quotidiano dei miei cari: i bambini che ascoltavano musica provando i costumi popolari della nostra collezione privata. Mi aveva colpito la luce che proveniva lateralmente dalla finestra. Rinunciando a curare i dettagli, intendevo realizzare una sintesi espressiva dell’insieme. Inoltre, mi sono posto il problema di dipingere dal vero. È difficile rimanere a tu per tu con la realtà e trasfonderla nella tela in poco tempo, senza che vada smarrita l’atmosfera complessiva del “momento”. Il pittore Konstantín Koròvin insegnava a guardare con occhi “spalancati”, senza soffermarsi sulle singole parti. È quello che ho cercato di fare lavorando su questo ritratto.

Nonostante tutti i miei sforzi, non ho mai potuto amare la pittura “di genere”. E non comprendo nemmeno il naturalismo, che è la morte dell’arte e non ha alcun futuro. Il naturalismo non ha mai fatto parte della tradizione culturale russa elevata, né nella pittura di icone, né in poesia, né in musica. Il percorso di sviluppo piú coerente dell’arte russa e di quanto di meglio essa ha espresso – si tratti del Cantare delle gesta di Igor’, di Púškin, dell’icona, di Rachmàninov o di Stanislàvskij – è il realismo, che attinge il simbolo, il segno. Lo stile è l’insieme dei mezzi che esprimono un’idea.

Un quadro di soggetto storico prende forma quando l’immaginazione artistica viene rapita non da scene in costume dalla vita di personalità famose, non dall’attualità del tema, non dal fascino dei tempi, bensí, io credo, dall’inconscio legame dell’artista con la ricchezza che un’epoca esprime dal punto di spirituale ed estetico. Certo non esistono temi peggiori di altri, quanto piuttosto decisioni infelici; comunque sia, io non recepisco la storia come fosse un libro di prediche. Sento vicine le parole di Lèrmontov:

 

            Amo la patria mia, ma di uno strano amore!

            La mia ragione non la comprende.

            Né gloria acquistata col sangue,

            Né pace piena di orgogliosa fiducia,

            Né amate leggende dall’oscura antichità

            Agiteranno in me sogni confortanti. 

 

            A me pare che queste parole riguardino appunto l’elemento “quotidiano” della storia. Noi siamo storicamente, misticamente legati ai suoi protagonisti, nelle nostre vene scorre lo stesso sangue dei bogatyrí [3] e dei santi asceti. A tutti capita che una frase lasciata cadere per caso, un profumo o una canzone risveglino nel cuore una miniera di ricordi dell’infanzia, di persone vicine che se ne sono andate; in questo stesso modo, la pittura è in grado di agire sull’anima. Proprio per questo i Corvi di Savràsov sono una tela “storica” in misura decisamente maggiore rispetto all’enorme quadro di Brjullòv La difesa di Pskov[4]. A mio modo di vedere, non esiste e non deve esistere una pittura di soggetto storico come “genere” a sé stante. Sarebbe una forzatura. In un uomo, il talento rappresenta un enigma, ma sono l’onestà degli intenti e delle tribolazioni che danno all’artista il diritto di scegliersi come protagonista, per fare un esempio, l’igumeno Sèrgij di Ràdonež[5]. E se, come esito, in chi guarda sorge uno struggente sentimento di compartecipazione, o addirittura la sensazione di essere una sorta di “coautore” dell’opera, significa che essa è riuscita.

 

            Nonostante le incalcolabili devastazioni, incendi e rivoluzioni subite, alla Russia rimane un enorme patrimonio di arte sacra, che a tutt’oggi non è ancora stato sottoposto a indagine esaustiva da parte di critici, storici e artisti. Abbiamo avuto la pittura bizantina, l’arte spirituale di ambito accademico, i brillanti affreschi della scuola di Jaroslàvl’, le decorazioni di stampo quasi protestante dei templi pietroburghesi, il commovente naïf contadino, il genio di Rublëv… Tutto ciò è stato distrutto dal raffinato, “morboso” stile moderno. Cosa resta, dunque, al pittore di soggetti sacri dei nostri tempi? Un’eredità che può recepire, anche se forse non pienamente. E poi, egli resta con se stesso. Noi ci ritroviamo senza continuità e senza prospettiva, senza una scuola quali sono state nei secoli le “botteghe” dell’Oružèjnaja Palàta, di Pàlech[6] e, naturalmente, l’Imperiale Accademia di Belle Arti. Per quanto mi riguarda, in questa fase della mia vita creativa, quando decoro l’interno di una chiesa sono interessato, piú che alla stilizzazione e alla sintesi, a pormi il problema di come non compromettere l’indirizzo che la caratterizza, come mantenere un equilibrio tra la decorazione e l’arredo di un tempio, da un lato, e la storia del luogo in cui lavoro dall’altro, affinché non si insinuino elementi di “soggettivismo” e, al contrario, tutto si armonizzi col luogo e con lo spazio, come se fosse la storia stessa a richiederne la presenza. Talvolta si tratta di una nuova costruzione, in altre occasioni di un tempio devastato e in seguito restituito a nuova vita, le cui pareti impongono all’artista grande senso di responsabilità. Ogni epoca ha avuto i suoi canoni, e la visione del pittore si sottometteva alle regole del suo tempo. Sortirebbe effetti terribili mescolare gli stili e dedurne un complesso di regole che dovessero ritenersi valide nell’oggi. Ma è in errore anche chi pensa che, disponendo ai nostri giorni di tutte le nozioni necessarie, “replicare” sia sufficiente: è, questa, una soluzione ugualmente nefasta. Qui sta tutta la difficoltà. La mia opinione è che, per un artista dotato di sensibilità e incessantemente concentrato su questi problemi, abbia senso indirizzare i propri sforzi verso l’improvvisazione. Davanti a una parete da decorare, tutti i discorsi sul fatto che bisogna avere uno stile individuale e inconfondibile finiscono in nulla. Certo, un bel momento si svilupperà anche una maniera personale: ma sarà appunto il frutto di quell’improvvisazione, la visione nuova di un artista spiritualmente maturato; e giacché parliamo di pittura sacra, che si sviluppi o meno, sarà comunque espressione di una volontà superiore.

            Ho avuto la mia prima esperienza con l’affresco lavorando nella “Piccola” Chiesa dell’Ascensione, in via Bol’šàja Nikítskaja.

            Negli anni Ottanta del XVI secolo, un decreto dello zar Fëdor Ioànnovič stabiliva quanto segue: «a Mosca, presso la porta Nikítskaja, sia edificato un tempio di pietra intitolato all’Ascensione, e unitamente alla Decapitazione di Giovanni il Precursore e al Taumaturgo Prokòpij di Ústjug il Giusto». In questo luogo nei dintorni del Cremlino, tra i bianchi palazzi delle famiglie dei boiari moscoviti, già da tempo si trovava infatti una foresteria per quei mercanti di Nòvgorod e cittadini di Ústjug che differenti necessità portavano a Mosca. È verosimile che siano passati di qui i pittori di icone di Ústjug, rinomati maestri del dettaglio[7], e smaltisti, argentieri…

            Nella città di Velíkij Ústjug, all’epoca fiorivano le botteghe artigiane e si costruiva molto. Vi facevano tappa le chiatte e le imbarcazioni mercantili inglesi dirette a Vòlogda e Jaroslàvl’. E all’alba del XVII secolo aveva già piú di cento anni il culto di un mercante, proveniente dalla terra di Germania, che a Nòvgorod si era liberato di tutte le sue ricchezze, aveva preso i voti presso il monastero di Chútyn’, poco distante, e andava in giro con le stesse vesti in estate e d’inverno; indossava stivali senza suole, teneva sempre in mano tre attizzatoi e sopravviveva al gelo condividendo il giaciglio, in una cappella abbandonata, con un branco di cani: si trattava del grande taumaturgo nonché primo “santo folle” della storia russa, Prokòpij il Giusto. «Il beato Prokòpij col tempo estivo e invernale, indosso il medesimo paramento stracciato e le stesse calzature, tutte le notti faceva visita alle chiese di Nostro Signore […]. Si recava sovente, il beato Prokòpij, sulla sponda del fiume Súchona, e quivi sedeva su una pietra e coi suoi occhi mirava gli uomini che navigavano in piccole barche, e per essi pregava Iddio…»[8].

            Anche ai giorni nostri, Velíkij Ústjug non è semplicemente una stazione fluviale abbandonata, regno di Babbo Natale e di tre negozietti di souvenir. Essa è invece una vitale città russa, sempre situata sulle rive della Súchona, che volente o nolente reca le tracce di un’epoca antica. Notti bianche, nebbie e il tipico cielo del nord, sfumato, incorniciato dalle nuvole, scintillante come gli scrigni di Ústjug decorati in pietra di mica. Stando ritti vicino alla cattedrale di San Prokòpij, puoi vedere contemporaneamente una tempesta che incombe nel cielo dalla parte del fiume Vjàtka e la calda, eterna foschia che aleggia sulla Dvinà… E all’interno, come a Venezia, risplende l’antica, possente iconostasi dorata. Nelle notti bianche, sulla riva opposta del fiume rimane visibile su un colle il monastero di Glèden’, come fosse un’isola in mezzo al bosco. Esso riflette un cielo che mai si spegne, e in quei momenti può capitare che appaia in lontananza l’esercito di Ústjug diretto a Kulikòvo Pòle, o magari l’accampamento di Dmítrij Šemjàka[9] sotto le mura di Glèden’. Vsèvolod Bol’šòe Gnezdò[10] teneva qui le sue battute di caccia col falcone… Le nubi provenienti dalla Dvinà, la tormenta che cancella le impronte sul fiume ghiacciato, la pietra di Prokòpij accanto alla cattedrale, sono le stesse di un tempo…

            Fin da bambino percorrevo via Nikítskaja, vicino al vicolo dove sono cresciuto. Rammento il portone chiuso di una chiesa di fronte al Conservatorio. Davanti ai miei occhi, la “Piccola” Chiesa dell’Ascensione è stata ricostruita grazie all’impegno dell’arciprete Gennàdij Ogrýzkov, di formazione architetto. Chiunque lo abbia conosciuto quando era in vita, potrà testimoniare la profonda influenza che sapeva esercitare sull’anima di un uomo. In questa chiesa ho battezzato i miei tre figli; a questa parrocchia è legata la mia vita. Anche ora continuo a lavorare alla decorazione del tempio.

            Ho costruito una casa a Ústjug, ma non mi è possibile starci quanto vorrei. L’altare di Prokòpij è l’unico luogo di Mosca in cui le rive della Dvinà non mi sembrano cosí lontane.

            Ho una cattedra di pittura, scultura e architettura presso l’Accademia di Belle Arti. I miei studenti fanno un periodo estivo di pratica, e il desiderio di “contagiarli” col mio amore per il Settentrione russo, fa sí che spesso trascorrano questo periodo nella città di Velíkij Ústjug.

 

            Di rado i testi di un album d’arte vengono letti: è un genere di pubblicazione che predispone a scorrere rapidamente le immagini. Anche a me non capita spesso di leggerli, ma desidero condividere un’impressione con chi si è fatto forza ed è arrivato fin qui. Quindici anni fa giravo per il Settentrione con uno zaino sulle spalle e una carta topografica della regione di Archàngel’sk. Mi ritrovai in un villaggio che sulla mappa recava l’indicazione “disabitato”. Una chiesa in legno del XVII secolo, col portale dipinto, era incustodita e abbandonata. Presso l’altare, un’icona era caduta in mezzo al guano: ne rimaneva solo un frammento, una gamba di Giovanni il Precursore. Dell’iconostasi distrutta restava, in alto giusto sotto il soffitto, solo un intaglio col dio Sabaoth benedicente. Era una calda giornata di luglio. Sull’ex palazzo del soviet di villaggio, anch’esso abbandonato, sventolava tristemente una sudicia bandiera rosa che un tempo era stata rossa. Il luogo era davvero disabitato. Ma ecco che dal palazzo del soviet d’un tratto mi venne incontro un uomo che aveva i lineamenti da armigero del Cantare delle gesta di Igor’, gli occhi completamente “fradici”. Era un giovane di una ventina d’anni. Saltò fuori una bottiglia. Facemmo amicizia, ed egli mi confidò il suo sogno segreto: «Sta a sentire… Hai visto, qui nella nostra chiesa, l’Aquila (intendendo Sabaoth)? Sarebbe bello tirare una fune da lí all’altro capo della Dvinà, attaccarci una lastra, saltarci sopra e partire aff…lo da qualche parte!». Sono passati quindici anni e io non ho dimenticato il sogno dell’ “armigero”. E per certi versi, credo di poterlo capire…

            Potessi anch’io lungo una fune invisibile andare in volo dalla mia amata Ústjug attraverso l’intrico dei boschi della regione di Vòlogda, sopra le vecchie città impolverate, dove il sole cadente spegne gli ultimi raggi rosati sulle finestre delle case dei mercanti. Verso la Cattedrale di Santa Sofia a Kiev, anche se non sempre gli uccelli riescono ad arrivare oltre il mezzo dello Dnepr[11], e avanti, verso il Ponto che va oscurando, il Bosforo, Costantinopoli, fino alla dorata Ravenna, alle torbide acque verderame di Venezia…

            Vorrei concludere con un accento ottimistico, senza quell’ironia che potrebbe suggerire una certa somiglianza con la serata degli Oscar: desidero esprimere la mia sincera gratitudine a mio padre e mia madre, per ogni cosa importante della mia vita, e per la vita stessa. A mia moglie e ai miei figli per le gioie e le difficoltà che abbiamo condiviso. Agli amici che mi sono vicini da lunghi anni, al parroco e al clero della “Piccola” Chiesa dell’Ascensione, ai miei modelli e ai miei committenti. Agli abitanti dei villaggi che mi hanno dato un letto per dormire.

            E anche ai compilatori della carta topografica della regione di Archàngel’sk, agli studenti che pure mi sottraggono il mio tempo, a quel docente della Scuola d’Arte Sovietica che prescrisse di non raffigurare le croci sulle bandiere della navi norvegesi a Múrmansk, alla casa editrice “Bèlyj Gòrod”.

            Con l’augurio di felicità, soddisfazioni creative e una vita piena.

 

 

Traduzione a cura di Alessandro Romano



[1] Kokòšnik: copricapo ornato delle donne russe, diffuso in particolare nelle zone settentrionali; sarafàn: ampia veste tradizionale della donna russa, lunga fino ai piedi, senza maniche, a vita alta e con abbottonatura sul davanti lungo tutta la sua lunghezza.

[2] Lubòk: stampa popolare.

[3] Bogatýr’: eroe delle leggende popolari.

[4] Si allude alle opere Sono arrivati i corvi (1871) di Aleksèj Savràsov e L’assedio di Pskov da parte del re di Polonia Stefano Báthory nel 1581 (1839-43; incompiuto) di Karl Brjullòv.

[5] San Sergio di Ràdonež è uno dei piú popolari santi monaci russi.

[6] Rispettivamente, il palazzo dell’Armeria del Cremlino e la località nella regione di Ivànovo, a nord-est di Mosca, dove fioriva un’attività di decorazione in miniatura.

[7] In particolare, vi era una categoria di pittori di icone specializzati nell’esecuzione dell’erba.

[8] Passi tratti dalla Vita di Prokòpij di Ùstjug, manoscritto della fine del XVI secolo.

[9] Dmítrij Šemjàka (1420-1453), principe di Gàlič-Kostromà, uno dei protagonisti delle guerre feudali che scossero la Russia nel XV secolo.

[10] Vsèvolod III (1154-1212), gran principe di Vladímir, figlio di Júrij Dolgorúkij, detto “Vsèvolod Grande Nido” perché ebbe molti figli.

[11] Allusione a un famoso passo tratto dal decimo capitolo del racconto La terribile vendetta di Nikolàj Gògol’, dalla raccolta Veglie alla fattoria presso Dikàn’ka: «Ma nessuno osa guardare al centro dello Dnepr: nessuno vi guarda, eccetto il sole e il cielo azzurro. Pochi sono gli uccelli che arrivano a volare fino al mezzo dello Dnepr. Magnifico fiume! Non ha l’eguale al mondo».

 

 



[1] Nomi e vocaboli russi sono traslitterati secondo le norme scientifiche: in particolare, si tenga conto che c vale z aspra di “zio”, č vale c dolce di “cena”, il digramma ch vale h con valore consonantico, e si legge “ie”, ë si legge “iò”, g è sempre dura, s vale s aspra di “sole”, š vale il digramma sc di “scena”, z vale s dolce di “rosa”, ž vale j alla francese come in “jour”.